Tradurre: «trasportare», spiega il Vocabolario della Crusca (1612) e aggiunge: «oggi tradurre si dice per quello che nel miglior secolo si diceva volgarizzare, o traslatare». È questo aspetto testuale e linguistico che qui seguiremo per il significato che assume in alcuni momenti della civiltà mediterranea, pur tenendo presente che esso si iscrive in più vasto processo di trasferimento, interpretazione, riscrittura di patrimoni ereditati e di modelli precedenti.
Traduzione dunque di testi scritti come condizione e testimonianza della loro fortuna e influenza. È la traduzione che salva e verifica una tradizione, un’eredità: così se per i greci scarso significato ha il tradurre, sino all’età ellenistica, dato il primato della lingua greca, esso assume invece un ben diverso valore nella cultura latina che avverte immediatamente la necessità di trasferire – interpretare e utilizzare – esperienze delle quali sentiva la mancanza, modelli di scrittura e di pensiero; operazione tanto più necessaria, quanto più si avvertiva la crisi di una grande precedente civiltà. È il compito che Cicerone assegna ai suoi contemporanei e nel quale egli stesso si impegna; alla Grecia in crisi (languenti Graeciae) si deve strappare il primato che ha avuto in filosofia e nelle altre discipline e trasferirlo a Roma attraverso un’assidua opera di traduzione e riscrittura. La cultura latina nasce non solo su modelli greci, ma sulla traduzione e rielaborazione di testi e di linguaggi: già Lucrezio sottolineava la egestas, la povertà, del sermone patrio, e creava un lessico nuovo, calco e traduzione dal greco, riproponendo e traducendo la filosofia di Epicuro; più ampiamente Cicerone non solo si farà traduttore, ma interpretando il tradurre nel suo senso più ampio, si impegnerà a rielaborare, a «trasferire» in latino temi e problemi della tradizione filosofica greca: «transferre ad usum nostrum».
Nel V secolo sarà Boezio a riprendere il tema ciceroniano, in un momento di grande vivacità della cultura greca e latina in Occidente, sotto l’imperatore Teodorico, mentre si avvertiva la decadenza della civiltà bizantina. Boezio ricorda l’esempio di Cicerone: essendo in crisi la Grecia è necessaria una vasta opera di traduzione nella quale egli stesso si impegna e che solo in parte realizza. Suo il programma di tradurre tutto Platone e Aristotele, insieme ai testi scientifici della grecità, da Euclide a Archimede: si tratta di tradurre, «in Romanum stilum vertens», di «fare romani» i «Graecorum dogmata». Per tuo merito, scriverà re Teodorico a Boezio, Roma ha nel suo patrio sermone tutto il patrimonio di conoscenza e di arti che la Grecia ha prodotto per opera di singoli uomini. Poco più tardi, in Calabria, a Vivarium, Cassiodoro raccoglierà testi sacri e profani per conservarli, copiarli, emendarli, se necessario tradurli, con una chiara consapevolezza della centralità dell’opera dell’antiquarius, del librarius per conservare e trasmettere i «priscorum dogmata». Anche qui si trattava di salvare una tradizione, un’eredità in un momento drammatico: «non v’è spazio per opere di pace in tempi ingrati». Così nella biblioteca di Vivarium non solo si conserva, ma si traduce dal greco quello che è essenziale perché sia possibile gustare «spiritualia poma Paradisi». Il compito dell’antiquarius, del bibliotecario, copista o traduttore diviene essenziale; egli realizza la volontà stessa di Dio, è un librarius, scrive Cassiodoro (nelle Institutiones) con ardita etimologia, perché serve alla libra, alla bilancia della celeste giustizia; è una «penna celeste» che, nel copiare e correggere i testi, combatte gli errori e gli inganni del demonio. Conservare, copiare, tradurre: tutte forme di un continuo traducere, di un trasmettere un patrimonio di conoscenze, di esperienze, di modelli secondo processi di arricchimento, di trasferimento, con il recupero di testi antichi e con la loro trascrizione e traduzione in nuovi linguaggi; ove il trascrivere, il tradurre tradizioni antiche è premessa per la nascita di una nuova cultura. Tutta la civiltà dell’Europa medievale, nei suoi momenti di più radicale rinnovamento, è legata a traduzioni dal greco – poi anche dall’arabo – di testi dei quali si era perduta memoria. Nell’827 è trasferito da Oriente e Occidente – dono di Michele il Balbo a Luigi il Pio (827) – il corpus degli scritti attribuiti al Dionigi Areopagita convertito da Paolo – e alla sua traduzione in latino si impegna Giovanni Scoto per volere di Carlo il Calvo (dopo il non felice esito della traduzione di Ilduino), con altri frammenti di patristica greca, anzitutto gli Ambigua di Massimo il Confessore: sono questi autori a ispirare quel capolavoro che è il De divisione naturae, dove rifluiscono anche insegnamenti di Origene letto nelle versioni latine di Rufino e di Girolamo; dal sec. IX Dionigi Areopagita sarà punto di riferimento di massima autorità per tutta la riflessione teologica, aprendo altresì la via della teologia negativa, e il corpus delle sue opere sarà più volte tradotto e commentato, fino alle versioni umanistiche (dopo quelle medievali di Giovanni Saraceno e Roberto Grossatesta) di Ambrogio Traversari e Marsilio Ficino. Una più radicale trasformazione della cultura europea si verifica fra XII e XIII secolo, ancora una volta determinata da un afflusso di testi e quindi di traduzioni di scritti greci e arabi del tutto ignoti ai latini: essi presentavano una nuova concezione del mondo e dell’uomo destinata a mutare profondamente tanto la filosofia e la scienza, quanto l’esegesi e la teologia, nei problemi, nelle strutture argomentative come nel lessico: nasce, per la creatività dei traduttori, attraverso traduzioni, adattamenti e calchi, traslitterazioni dal greco e dall’arabo, una terminologia filosofica, scientifica, tecnica rimasta a fondamento del lessico latino moderno e volgare. Nel giro di un secolo, la biblioteca medievale acquisisce in traduzione latina una parte cospicua della filosofia e della scienza greca e araba: basterà ricordare che all’Aristotele conosciuto fino ai primi decenni del XII secolo solo attraverso due libri dell’Organo, le Categoriae e il De interpretatione, si sostituisce in pochi decenni il corpus pressoché completo delle sue opere che, tradotte dall’arabo e dal greco, e inserite dal secolo XIII nei programmi d’insegnamento delle università, resteranno per secoli libri di testo nella Facoltà delle arti. Ancora nel Settecento alla Sapienza di Roma si studia il De coelo di Aristotele. Ma l’afflusso di altre opere non è meno significativo: dai testi di Tolomeo (l’Almagesto, il Quadripartito, lo pseudoepigrafo Centiloquio) a Galeno, ad alcuni commentatori greci di Aristotele, ai grandi testi di scienziati e filosofi arabi (al-Kindi, Al-Ghazali, soprattutto Avicenna e Averroè) e un’amplissima serie di scritti di astrologia, magia, alchimia: opere tutte accolte nella consapevolezza che l’inscitia dei latini, la loro aviditas philosophandi, poteva finalmente essere saziata grazie a un nuovo sapere tratto «ex intimis Arabum thesauris»; un sapere che peraltro era la trascrizione e l’eredità di più antiche culture orientali – indiane, persiane, caldaiche – delle quali la cultura araba era l’ultima translatio. Così alla povertà e ignoranza dei latini si contrappone la priscorum opulentia mediata dagli arabi che ora è impegno comune transferre in latinum sermonem, risvegliandosi da un lungo sonno. Ed è proprio l’enorme influenza esercitata dalla cultura araba a confermare il ruolo capitale svolto dalle traduzioni, oltre a quelle di autori greci: perché la conoscenza di tutti i testi arabi letti e discussi in Europa dal sec. XII all’inoltrato Seicento è esclusivamente legata alle traduzioni latine dall’arabo realizzate fra secolo XII e XIII (in parte riviste in età umanistica) le quali non solo hanno salvato alcune opere perdute nell’originale arabo ma a tutte hanno assicurato una forte presenza nella cultura europea, e soprattutto nell’insegnamento universitario, imponendosi come fondamentali manuali di riferimento (basti pensare ai commenti di Averroè che accompagnano sempre il testo aristotelico). Tutta la cultura umanistica inserirà il tema della riscoperta dell’antico nella cornice di continui passaggi da una ad altra cultura secondo un processo di continue traduzioni e trascrizioni: ne sono paradigmatico esempio i testi del tre volte grande Ermete che scrisse in caratteri geroglifici, poi «tradotti» in greco e finalmente presentati in latino da Marsilio Ficino come egli stesso scrive, dedicando la sua traduzione a Cosimo de’ Medici (1471). Con lui assume forza il mito di una grande ininterrotta tradizione culturale – una pia philosophia o prisca theologia – che da Ermete prosegue con Zoroastro e Orfeo, Pitagora e Platone, con i neoplatonici pagani e cristiani in un continuo processo di scritture e traduzioni: «omnis sapientia a barbaris ad graecos a graecis ad nos manavit».
È del resto ben noto quanto la cultura umanistica – e la coscienza dalla «rinascita» – sia legata alla scoperta di testi greci e latini perduti che tornano a rivivere (reviviscere) per una nuova translatio una volta liberati dalle «carceri» dei ‘barbari’ – le biblioteche monastiche d’Oriente e d’Occidente – e portati a nuova luce attraverso edizioni e traduzioni. Non a caso echeggiano stilemi antichi per la stessa necessità di raccogliere e salvare la cultura di una grecità in crisi, ricorrendo alla formula languenti Graeciae di Cicerone e poi di Boezio. Tanto più questa consapevolezza si fa forte e drammatica quando, con la caduta di Costantinopoli in mano a Maometto II nel 1453, si teme che ormai tutti i patrimoni della grande civiltà greca vengano perduti o distrutti e che una grande tradizione venga per sempre interrotta. E se notevole fu il ritrovamento di grandi testi della latinità – da Lucrezio a tutto Firmico Materno – di assai maggior rilievo fu non solo la scoperta, ma soprattutto la pronta traduzione in latino, degli autori della grecità classica e cristiana dei quali il Medioevo aveva perduto traccia o conservato solo qualche testo isolato (salvo Aristotele ampiamente tradotto dall’arabo e dal greco): da Omero ai tragici, da Platone a Plotino e ai neoplatonici, da Tucidide a Polibio, da Plutarco a Luciano, da Temistio a Alessandro di Afrodisia, da Galeno a Sesto Empirico e ai Padri greci, da Basilio di Cesarea a Giovanni Crisostomo (integrando le traduzioni latine tardo-antiche e medievali); dall’Euclide nella recensione di Teone Alessandrino a tutta la tradizione del pensiero matematico e scientifico solo in piccola parte passato dall’arabo in latino nel Medioevo. Basti ricordare che per le traduzioni umanistiche dal greco – e il calcolo è limitato a quelle realizzate entro il 1525 e pubblicate entro il Cinquecento – sono state censite più di 560 opere, 766 traduzioni, 178 traduttori. Alla precisa consapevolezza che la riscoperta e rinascita della cultura greca sia la premessa della rinascita delle bonae disciplinae («his renatis, illa reflorescerunt», come scrive Erasmo), corrisponde il febbrile impegno nelle traduzioni dal greco in latino per opera di alcuni dei maggiori esponenti di quell’età: dal Bessarione al Ficino, da Giorgio Valla a Poggio Bracciolini, da Teodoro Gaza a Erasmo, da Leonardo Bruni a Guarino Veronese, da Angelo Poliziano a Ambrogio Traversari, da Jacques Lefèvre d’Étaples a Gentian Hervet, per dir solo di alcuni. Sono le traduzioni a «trarre dalle tenebre» l’eredità della cultura greca rendendola determinante per la costituzione della nuova biblioteca dei ‘classici’ secondo un canone che caratterizzerà la modernità, proponendo modelli di pensiero e di arte fondamentali per la cultura moderna. Peraltro si dovrà sottolineare che spesso le traduzioni latine precedono l’editio princeps del greco: basterà ricordare che tutto il corpus della tradizione platonica e neoplatonica – da Platone a Plotino, Proclo, Giamblico – di capitale importanza per la cultura rinascimentale, circola nelle traduzioni di Marsilio Ficino assai prima delle edizioni dei rispettivi originali greci, con più ampia e duratura fortuna. Quello che si intende qui sottolineare non è dunque la nota riscoperta dei classici greci e latini che caratterizza la cultura umanistica e rinascimentale, quanto piuttosto la consapevolezza che i tesori della sapienza e della letteratura greca sarebbero rimasti sconosciuti se non si fossero subito tradotti in latino: di qui l’importanza non solo delle discussioni sul tradurre – sulla scia della polemica di Leonardo Bruni contro le traduzioni medievali nel De interpretatione recta – ma soprattutto l’assiduo insistere sulla centralità della traduzione: in questa attività si realizza il grande scambio, il «mercato» non di merci ma di modelli e valori. Lo afferma con forza Lorenzo Valla con la felice analogia proposta fra mercatura rerum e translatio linguarum. Questa translatio, mercatura quaedam optimarum artium, traduzione «e greca vel ex hebreo vel e chaldaica punicave lingua» in latino, lingua universale e superiore anche alla greca per ricchezza ed espressività, rende possibile mettere a disposizione di tutti esperienze culturali diverse, sicché «non vi è nulla che manchi, tutto è sovrabbondante, tutto è in comune come si dice del secolo d’oro». Le traduzioni in latino sono la premessa e la condizione per una nuova età dell’oro: dunque «cosa di più utile, ricco, necessario della traduzione dei testi?».
Presto verrà a configurarsi la necessità di tradurre quei testi greci e latini in lingue volgari, così da rompere il cerchio dei dotti per i quali il latino era la lingua d’uso nella scrittura e nell’insegnamento universitario. Il tradurre, lo scrivere in volgare diviene simbolo e veicolo della modernità. Si dovrà anche ricordare che il tradurre non è solo passaggio da uno ad altro sistema linguistico, ma anche il conferire nuovi significati a vocaboli antichi per liberarli dal condizionamento di precedenti, autorevoli tradizioni: si trattava di uscire da un sistema linguistico rinnovandolo dal suo interno.
Il presente testo è una parte della versione breve e senza note di un contributo del 2016.