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Intervista a Tullio Gregory a conclusione di un seminario sulla «ratio». I molti significati di questo termine «spugnoso» Debolezza del pensiero debole
ROMA. Un bell’esempio di storia delle idee ce lo fornisce lo storico della filosofia Tullio Gregory: «C’è un problema che attraversa tutto il Seicento ed è quello di sapere se gli animali usano la ragione come gli uomini oppure no. La questione, allora, non era affatto innocua.
Perché affermare che gli animali ragionano, portava inevitabilmente a concludere che l’anima degli animali è come quella degli uomini, e quindi immortale; oppure, per converso, che non occorre un’anima immortale per ragionare».
Se filosofia è ricerca dei fondamenti comuni del sapere, va da sé che un termine come ragione è strumento ed essenza stessa di ogni esercizio filosofico («Nulla accade senza che vi sia una ragione perché ciò accada così anziché altrimenti», sosteneva Leibniz nel suo principio di ragione sufficiente). E quindi, come tale, ragione è una parola centrale («polisemica», direbbero gli specialisti) che, in una costellazione di significati e di rimandi, ritroviamo nel pensiero che gli uomini hanno elaborato lungo i secoli, nel far scienza, storia, politica e scienza della politica, amministrazione, diritto.
Ma anche nel far etica e morale; nel guardare all’armonia del cosmo, all’unione tra il cosmo e il dio.
Ne sono traccia le tante espressioni che ci portiamo dietro: «la ragione della cosa», «la ragione del contendere», «la ragione sociale» «la ragione di scambio», «la ragion di Stato».
Ma anche la ratio veritatis e la ratio divina. Insomma, in principio era il Verbo. Perché anche qui, nel percorso dei traduttori, si ritrova prima un legame e poi il distacco tra ratio (che nella sua origine latina ha un’accezione matematica, di calcolo) e logos (ancora nel significato di ragione, ma anche di parola, tanto che Verbum, nella mediazione latina, sta ad indicare la seconda persona della Trinità, Cristo).
Con tutto questo – cioè, con l’universo della ratio – ha voluto cimentarsi, in un seminario internazionale a Roma, il lessico intellettuale europeo, che è il più importante centro umanistico del Cnr (ha all’attivo, ormai, ben 56 pubblicazioni) e una delle grandi imprese lessicografiche e di storia delle idee in campo mondiale. Sono vent’anni, circa, che il Lessico – presieduto da Eugenio Garin e diretto da Tullio Gregory – passa al setaccio i termini chiave della nostra cultura, con uno specifico riferimento all’analisi del linguaggio della scienza e della filosofia occidentali, nella convinzione che non si possa fare storia delle idee senza seguire i percorsi, a volte inattesi, di quel luogo privilegiato dell’espressione che è la parola.
E se la perseveranza serve a fare tradizione, si può ben dire che, in un paese che in fatto di istituzioni culturali vive sempre un oggi gramo e un domani incerto, una bella tradizione il Lessico l’ha saputa creare. La sua «storia delle parole» prende inizio nel 1974, quando il lessico riunì, a Roma, filosofi, linguisti e lessicologi di vaglia, per compiere un’esplorazione preliminare sul campo. Lo scopo era quello di promuovere un’iniziativa internazionale nel settore, che difatti diede vita successivamente a simposi di alta specializzazione, con cadenza triennale, dove poter affrontare termini e concetti che rappresentano i poli unificanti della nostra cultura. I grumi, insomma, della speculazione filosofica occidentale.
Così, di triennio in triennio, appunto, e sempre negli stessi giorni (quelli a ridosso dell’Epifania), il Lessico si è dato appuntamento, a partire dal 1977, con ordo e i suoi corrispondenti nelle varie lingue europee (ordre, ordine); e poi con res (chose, cosa), spiritus, phantasia/imaginatio, idea.
Ora, siamo a «ratio». Sembra quasi, professor Gregory, che, con i termini «Idea», «spirito», «fantasia» e «immaginazione» voi abbiate fatto un’opera di accerchiamento della «ragione»…
Si, era quasi inevitabile ormai che ci dovessimo occupare di questo termine. Ratio è parola spugnosa, che assorbe in sé molti significati. Prende il significato di causa, ma anche quello di idea. E idea è una creazione del soggetto, dello spirito, un termine, peraltro, che solo tardivamente, passando nelle lingue romanze, si carica del significato prevalente di attività spirituale, appunto. Senza parlare, poi, di un grande tema, della fantasia, che è una facoltà onnivora, totalizzante: il centro dell’attività psicologica, dell’attività creatrice, che fa e modifica l’oggetto esterno, che si esprime nella poesia, ma che può anche stregare con i suoi sogni.
Dunque, una «ratio» incerta nei suoi confini?
Una ratio ambigua, direi. È trascendente o immanente? La ratio può essere il rispecchiare dell’ordine che Dio ha creato, può essere Dio stesso, il fondamento, l’oggettività, il principio razionale delle cose; e può essere, invece, un’attività soggettiva, facoltà discorsiva per eccellenza e strumento eminentemente umano per costruire un ordine, un riferimento, una nostra «carta geografica» per indagare e per orientarci nel mondo. Certo, con i tempi moderni diventa marginale l’accezione alta di ratio divina, e il termine assume sempre di più il significato di strumento critico e di orientamento del comportamento etico. Con i lumi, si sa, la ragione si fa anche elemento di progresso, un’alleata delle arti e delle scienze, che combatte la superstizione e che aiuta ad uscire dallo stato di sudditanza.
Ma oggi, per vezzo o per moda culturale, si indulge da varie parti a parlar male della «ragione critica», della «ragione storica»…
Noi usiamo attraversare la strada quando il semaforo è verde.
È, per così dire, un sistema di riferimento, una convenzione cui occorre attenerci. Bene. Per quanto convenzionale possa essere la ragione, o meglio ciò che la ragione produce, non vi sarà al di là di essa che regressione. A nichilisti o metafisici che siano, restano i fantasmi della ragione. Del resto, anche se il riferimento è troppo nobile, come mai non si ritrova, nel ribollente pentoIone del pensiero debole, neanche un briciolo della scintillante lucidità di un «Discorso sul metodo» o di una «Critica della ragion pura», ma solo un discorrere fumoso e iniziatico, volto forse a meravigliare, certamente a confondere?
E c’è senno nella storia? Lei crede che sia la «ragione» a reggere la storia?
No, se si presuppone che la storia si muova secondo «ragione», si corre il rischio di cadere in una visione finalistica, teleologica, che oltrepassa gli uomini; e può nascere così la pretesa, da parte di qualcuno, di governare la storia, di rappresentare la «ragione» della storia. Il discorso è diverso: la storia è oggetto di studio razionale. Questo sì.
Professor Gregory, chiudiamo la parabola della «ragione» e torniamo un po’ indietro, allo spirito. Lei accennava al fatto che questo termine ha assunto solo tardivamente il significato, per lo più comunemente inteso, di attività spirituale. Perché non è stato sempre così?
Nella tradizione latina, fino a tutto il 1600, se si eccettua il linguaggio teologico-cristiano, il termine spiritus, che ha all’origine il concetto di «respiro», segue un percorso prevalentemente materiale: indica il principio vitale, il soffio di vita, il veicolo della sensibilità attraverso il nostro sistema nervoso.
È, insomma, una parola di origine naturalistico-fisiologica, che coagula intorno a sé ciò che è dinamico e vitale. Solo in Spirito Santo si ritrova un significato divino, immateriale. Con Cartesio, però, si proprio con lui, si segna un grande momento di svolta, in seguito al quale la parola subirà, per così dire, un processo di completa «spiritualizzazione». E appunto la contrapposizione cartesiana di spirito e materia che distingue gli inizi del pensiero moderno e al cui interno ancora oggi ci muoviamo.
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