Visualizza PDF 1995-01-06-La Voce – Aiello
Il termine «sensazione». Le parole «senso», «sensi». Bastava infilare queste espressioni e concetti in un libro e subito, nel Cinque e Seicento, si finiva motto il tallone di frati inquisitori. La sensibilità come porta dell’intelletto? Come infallibile suggeritrice di ogni idea umana? Per carità: roba da epicurei, da eretici, da «perniciosissimi» sovvertitori della tradizione aristotelica e quindi dell’ordine costituito. La Chiesa in allarme.
Ed è emblematica di questa paura che il potere aveva dei sensi la vicenda di uno dei maggiori matematici di fine Seicento, Alessandro Marchetti, e dalla sua traduzione in toscano dal De Rerum natura di Lucrezio. Già l’originale faceva venire i brividi all’Italia da parrocchia. Ma la versione di Marchetti era il colmo: gonfia di umori epicurei e gassendiani, ultra materialista, tutta basata sulla convinzione che solo togliendo la briglia ai sensi e buttandosi nei piaceri si può conoscere il mondo. Ovvio: i tipografi che s’azzardavano a stampare il testo finivano puntualmente in prigione. Come capitò nel 1713 a uno spericolato stampatore clandestino di Napoli, Lorenzo Ciccarelli. Non solo. Nelle relazioni dirette a Roma dai nunzi apostolici dei vari Stati italiani il libro di Marchetti era il più paurosamente citato: occhio, avvertivano i dispacci, qui si sta stampando «alla macchia» la demoniaca traduzione di Lucrezio. Il potere intervenga. Insomma, le peripezie dalla parola e del concetto «senso» sono un angolo visuale perfetto per ripercorrere la storia editoriale e politica, religiosa e linguistica, filosofica e scientifica del nostro continente. La formazione del mondo d’oggi si può spiare con gusto attraverso le vicissitudini di queste poche e filosoficissime sillabe. E allora, è giusta l’idea di dedicare a «Sensus e Sensatio» l’VIII colloquio internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, che ogni tre anni esamina sotto tutti i punti di vista alcune parole chiave del dibattito culturale dell’Europa medievale e moderna.
Da stamane fino a domenica all’università di Roma – in questo convegno organizzato dal Lessico insieme all’Istituto di Studi Filosofici di Napoli alla Fondazione Ibm Italia – ci saranno Bernard Quemada che insegna alla Sorbona ed è una sorta di viceministro francese per le questioni della lingua; Paul Tombeur, che dirige un’immensa banca dati europea dedicata al latino medievale; Roberto Busa, che è un pioniere dell’applicazione dell’informatica alla linguistica; e poi Gustavo Costa, John Yolton e tanti altri storici, teologi, linguisti, studiosi di filosofia di letteratura.
Si parlerà di «senso» come sentire e del «senso» come significato. Spiega il filosofo Tullio Gregory, che dirige il Lessico ed è l’anima dell’incontro romano: «Il celebre principio secondo cui la conoscenza deriva dai sensi aveva trovato nell’antichità tra i suoi sostenitori gli stoici e gli epicurei. Ma la sua formulazione classica, la sistemazione definitiva, l’avrà molto più tardi nelle “sensate esperienze” di Galileo Galilei e soprattutto nel Saggio sull’intelletto umano di John Locke del 1690. In cui il termine “sensazione” sostituisce quello di “senso” e sta a indicare “la fonte della maggior parte delle idee che abbiamo”. Poi dobbiamo ringraziare anche Kant: con lui il “senso” si afferma per sempre come strumento fondamentale di conoscenza».
Intanto, alla metà del Settecento, l’Encyclopedie di Diderot e D’Alembert aveva dedicato molte pagine a questa parola chiave. La sensibilità veniva di gran lunga preferita alla pura ragione. E l’autore del capitolo sui «sensi esterni», De Jaucourt, scriveva in estasi: «Godiamo come si conviene dei sensi di cui la natura ci ha voluti gratificare. La sensibilità è la madre dell’umanità, della generosità; serve il merito, soccorre lo spirito, si porta dietro la persuasione». Bene.
Ma la marcia trionfale dal «sensus» come conoscenza, che fu assai accidentata, percorre anche le pagine del Novum Organum di Francis Bacon, delle Regulae ad directionem ingenii di Cartesio, dell’Ethica di Baruch Spinoza. E così quelle di San Tommaso, Giordano Bruno, Campanella, Vico, Malebranche, Hume. Oppure quelle «maledettissime» dei Triregno di Pietro Giannone, famigerata opera utopista, piena di slanci a favore di una riforma “democratica” della società, che mandò su tutte le furie il potere settecentesco. E provocò notevoli guai a Giannone, già dannatissimo e costretto all’esilio per la sua anticlericale Istoria civile del Regno di Napoli. Il «senso», inteso come fratello maggiore dei cervello, è sempre stato la via migliore per finire all’Indice.
Ma anche per garantiti un posto nell’Olimpo della filosofia moderna.